INTRO (SE NON PUOI USCIRE DAL TUNNEL … ARREDALO)
Oggi vorrei parlarvi di città, o meglio del futuro che esse possono avere se superano questa stagione ambigua in cui molta parte della politica che ci guida ha perso sicurezza, denaro e forza ideale; in cui molta parte della stampa che leggiamo cerca notizie decotte piuttosto che indagare il nuovo che avanza; in cui i pessimisti urlano più forte degli ottimisti.
Lo vorrei fare perchè nonostante tutti questi gufi è in corso una vera e propria “primavera urbana” in Italia, che fa pulizia di tanti modelli astratti e obsoleti in pochissimo tempo e nella quale il soggetto pubblico e il soggetto privato devono necessariamente tornare a negoziare i progetti dalla stessa parte del tavolo. Per questo condivido le parole con le quali Alejandro Aravena (il più giovane Premio Nobel dell’Architettura) ha chiuso il proprio Ted Talk nel 2014; Aravena ha detto: “il potere della progettazione è cercare di fare un uso più efficiente delle risorse scarse nelle città. E questo non è un fatto di soldi, ma di coordinamento”.
Io nella vita mi occupo di paesaggio urbano, che non significa disegnare nuovi filari di alberi ma piuttosto ricostruire un immaginario coordinato che ci consenta di tornare a “fare città facendo comunità”.
Il mio primo immaginario risale al 6 maggio 1976, esattamente oggi 40 anni fa. Avevo due anni e mezzo ma ricordo ancora tutte le luci di una notte trascorsa per strada, in auto, per scampare alle scosse di un terremoto che in Friuli avrebbe fatto 1000 morti. Quella notte intere città crollavano su intere comunità per volere della Natura e forse da lì mi porto dentro il pensiero che lega questi due elementi.
Molte volte città e comunità si sono date le spalle e sono perfino avanzate in direzione opposta. La crisi però ha avuto il merito di farle ri-avvicinare e di pulire meglio di qualunque spazzino svizzero il terreno comune dalle incomprensioni. Un ulteriore aiuto è giunto dalla “Convenzione Europea del Paesaggio”, quasi una “legge cometa”, perché con la sola frase “è un paesaggio qualunque pezzo di territorio trasformato con consapevolezza” ha mandato in soffitta il nostro “modo italiano” di vedere le cose. Cosa che comunque aveva già fatto Marcel Proust dicendo “il vero viaggio di scoperta non consiste nel vedere nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”.
Ecco che su queste nuove basi si può rifondare un rapporto completamente perso nel secolo scorso pensando che città e comunità dovessero rispondere a logiche diverse: la prima a quelle degli interessi economici, la seconda a quelle degli interessi sociali. Ed ecco che il titolo dato a questa edizione 2016 di TEDxVicenza, “PLAY-PAUSE-RESTART”, riassume perfettamente i termini di un percorso che per noi oggi diventa ineludibile, per quanto pieno di paradossi e nuovi luoghi che ancora non hanno un nome. Insomma non abbiamo più alibi, le discipline classiche con le quali abbiamo studiato vanno in frantumi e si ibridano tra loro. Per usare una metafora diciamo che ci siamo infilati in un bel tunnel, che non è dato sapere quando riusciremo ad uscirne e che l’unico modo per sopravvivervi, nel frattempo, è arredarlo.
PLAY (LA CITTA’ NON PUO’ PERMETTERSI DI ESSERE HIPSTER)
A tutti voi sarà capitato (spero anche ai nativi digitali in sala) di schiacciare PLAY su un mangianastri analogico senza riuscire a farlo; non solo perché il tasto era rotto, ma perché il registratore era ormai superato, e perfino il negozio per ripararlo sotto casa era sparito da tempo, sostituito da una rivendita cinese di cover per smartphones.
Bene, immaginate che all’Italia delle città sia successa un po’ la stessa cosa e che oggi ci troviamo ad abitarle un po’ da “vintage urbani” e un po’ da “hipster nostalgici” perché quel tasto PLAY che serviva ad azionare facili leve politiche ed economiche, a raccontare e a normare facili trasformazioni dei luoghi, non funziona più.
Quello che è accaduto è che è venuta giù la Babele speculativa nella quale un impresario edile diventava per magia un imprenditore immobiliare e interi quartieri avanzavano sotto i nostri occhi disinteressati “con il piede gonfio”. Lo stesso piede di quel mirabile Ministro che non solo ci ha lasciato in eredità una legge sui “capannoni ovunque”, ma anche la frase “con la cultura non si mangia”. Ricordo quindi con un certo orgoglio il giorno di Ferragosto in cui mi tolsi il sassolino dalla scarpa ed ebbi l’occasione personale di ricordare proprio a quell'”omonimo signor T” che, a differenza sua, io stavo dalla parte del grande geografo Franco Farinelli, che dice “la cultura è l’ultimo grande manipolatore di senso che ci resta”.
(E’ TEMPO DI MOSSE DEL CAVALLO, STORYTELLING E OTTIMISMO CORSARO)
La frase di Farinelli dunque è la vera responsabile morale di due azzardi che feci con una bella dose di inconsapevolezza nel 2007 e che segnarono per sempre il mio percorso. L’uno infinitamente piccolo, una parola; l’altro infinitamente grande e complesso, un festival.
Il primo azzardo mi diede la forza di rendere pubblico un neologismo nato per gioco ma che pensavo potesse descrivere meglio di molti discorsi la lunga e grigia epopea del Nord Est produttivo: il “casannone”, casa + capannone. Il casannone rappresentava per me l’omaggio ad un libro di dieci anni prima che avevo amato molto, “Gli amici dei mostri” degli scrittori Gianni Gaggero e Rinaldo Luccardini, e che mi aveva insegnato a rinunciare con ironia ai sacri testi letterari nei quali tutti i paesaggisti si rifugiavano: ad esempio “Le città invisibili” o le “Lezioni Americane” di Italo Calvino, oppure le “Sei passeggiate nei boschi narrativi” di Umberto Eco. Nel libro va in scena un carteggio basato su cartoline postali vere che i due si mandano e che ritraggono ad esempio la “chiesa con porte da calcio”, la “campacasa” o altre stramberie tipologiche. Avevo imparato con quel libro la forza allenante dello storytelling urbano!
Il secondo azzardo mi portò a lanciare in meno di quattro mesi il primo festival delle aree dismesse in Italia. Nacque così “Comodamente”, quella che oggi si definirebbe una piattaforma complessa nata dal basso per rompere gli schemi classici del rapporto tra urbano e cultura, tra commercio e turismo, tra istituzione e think tank; attraverso la quale tutte le categorie sociali ripensano i luoghi in cui dialogare, stare abusivamente o semplicemente dormire!. La sua ultima edizione ha definitivamente destrutturato il modello di evento e si è trasformata in una vera e propria parata urbana di un giorno interamente contenuta dentro quello stesso elastico che ognuno di noi almeno una volta nella vita ha tenuto tra le dita.
Entrambi gli azzardi mi hanno fatto capire che l’Italia è in curva, e dietro quella curva esistono già un nuovo immaginario di città e un nuovo alfabeto con il quale comporle. Entrambi mi hanno insegnato a “capire il presente per capire la storia”, e non solo il suo contrario “capire la storia per capire il presente”. Entrambi mi hanno insegnato che soluzione complessa e soluzione semplice oggi non sono più in contraddizione, così come città e comunità, ma anzi possono essere rappresentate insieme. Tutto sta nel percorrere pensieri laterali, nel fare la cosiddetta “mossa del cavallo”, nel mettere zeppe e ibridare i temi.
RESTART (QUATTRO PROGETTI DI SARTORIA URBANA)
Vorrei quindi presentarvi quattro progetti sartoriali per quattro luoghi italiani: Verona, Collodi, Soligo e Vicenza.
A Verona siamo stati chiamati per rinnovare la speranza di un imprenditore e collezionista altoatesino che si era comprato in riva al fiume Adige il più grande presidio di approvvigionamento ferroviario del Nord Italia dismesso da pochi anni. L’imprenditore pensava in grande ma presto si era trovato davanti il solito muro di gomma che chiamiamo “burocrazia” e sul quale siamo rimbalzati tutti almeno una volta. Per risolvere l’ostacolo abbiamo proposto di passare da un semplice progetto ad un programma complesso denominato VERONA RELOAD, che già nel nome evocasse la volontà di accettare quel luogo così come trovato. Un luogo immenso, di capannoni muti e impenetrabili, popolato solo da pezzi di carrozze e locomotive.
Il primo atto che proponemmo fu simbolicamente quello di “tirare giù” il muro che divideva l’area dal quartiere popolare di Porto San Pancrazio e poi di realizzare in soli quattro giorni un grande spazio aperto da mettere a disposizione dei cittadini. Facevamo città facendo comunità. Una piazza senza panchine riuscì a riattivare un immaginario sepolto da tempo, e infatti nei mesi successivi l’imprenditore fu sommerso di richieste per utilizzare nei modi più diversi sia quello spazio aperto tanto strano sia i capannoni così come la comunità li aveva ri-trovati. E non era ancora stato realizzato un solo appartamento.
In Toscana ci siamo occupati di un luogo in cui tutti abbiamo sperato di perderci almeno una volta nella vita. Collodi, il paese di Pinocchio, secondo libro più tradotto al mondo dopo la Bibbia, collocato sotto una valle di cartiere che da sole producono metà del fabbisogno nazionale e sopra una pianura tappezzata di serre da fiori. Voi direte: il paese sarà una favola! E invece no, bugia. Perché anche a Collodi le cosiddette “centralità antibiotiche” che attraggono i turisti restano scollegate dalle cosiddette “centralità omeopatiche” che vive la comunità locale: le discese al fiume abbandonate, la Piazza della Pace che in realtà è un parcheggio, l’angolo del vivaista e molti altri luoghi minori. Per risolvere il problema abbiamo quindi proposto un ATLANTE COLLODI in cui riassumere e rappresentare tutti i luoghi di relazione possibile tra centralità antibiotiche e centralità omeopatiche. Il risultato è l’affresco di un parco policentrico in cui la forma del paese coincide magicamente con la forma del burattino e il “palazzo” di rappresentanza è in realtà il bosco che nasconde la bellissima Piazza dei Mosaici da cui partì tutto 60 anni fa.
Un caso altrettanto analogo ci è capitato sullo sponde di un altro fiume, il Soligo, che scorre a cavallo fra due comuni nel cuore delle terre del Prosecco e del latte più antico d’Italia. Lì infatti opera da più di 130 anni una Latteria Sociale che oggi è proprietaria di 40 capannoni più o meno abbandonati dopo aver concluso il proprio ciclo produttivo. Ma che fare oggi con quella selva di metri cubi? Una norma recente e sbrigativa proponeva di demolirne almeno il 70% a fronte di una premialità sulla quota residua. Già, demolire, ma con quali soldi? Anche in questo caso la nostra proposta fu quella di provare ad immaginare se quello potesse divenire il luogo di una nuova comunità che vive declinando tutte le possibili facce del sociale, profit e no-profit.
E’ nato così il PARCO SOCIALE SOLIGO, un processo che oggi comincia a trasformare i singoli edifici con progetti condivisi tra i vari attori di quel territorio. Da un anno è aperto al pubblico l’archivio storico della Latteria Sociale e sono in fase di progettazione l’apertura di una “cucina sociale” e di un centro diurno di assistenza alle fasce deboli della società.
Infine vorrei chiudere con un luogo dell’aria di questa città, Vicenza. Un luogo che la storia recente ha portato sulla bocca di tutti pur restando sostanzialmente sconosciuto. Un luogo immenso, che tutti già chiamiamo il PARCO DELLA PACE. Ebbene, da co-progettista di quel luogo e anche da vicentino acquisito, vi dico che non vi è dubbio che di lì passino il cardo e il decumano su cui rinnovare l’intero rapporto tra città e comunità. Quel luogo è un nuovo Heimat, una piccola patria, e come tale va trattato.
Grazie a questi progetti ho capito che l’ibridazione dei saperi rappresenta un giacimento illimitato da cui estrarre nuove città e nuovi paesaggi. Ad esse e ad essi possiamo dedicare tutta la vita o un solo giorno. Dipende non tanto da noi singoli, ma da quanto la comunità decide di tornare al centro della scena.
Non è facile dire a che punto siamo della crisi che in meno di cinque anni ha reso inefficaci e perfino dannosi gran parte degli strumenti urbanistici prodotti poco prima del suo inizio.
Me lo chiedo ogni giorno, trovandomi a condividere in molte parti d’Italia situazioni nelle quali il ritardo di conoscenza su ciò che può significare oggi il termine “fare urbano” genera mostri o, nel migliore dei casi, una forte perplessità quasi quanto l’asino di Buridano, che nel celebre paradosso muore di fame perché incapace di decidere quale dei due mucchi di fieno perfettamente uguali mangiare.
Immaginiamo quindi che anche la nostra Italia urbana si ritrovi di fronte a due pasti della stessa grandezza.
Il primo la descrive in lutto, stritolata e avvilita da crisi e norme, con valori immobiliari tendenti a zero e un mercato allo stallo. Verrebbe voglia di mangiarsi tutto, cioè di demolire tutto, azzerare il mare di lottizzazioni e capannoni che le hanno tolto lo scettro di “giardino d’Europa” (ma anche garantito la ricchezza presunta delle casse pubbliche, delle banche e degli investitori privati); oppure verrebbe voglia di fermarsi, in attesa che qualche divina provvidenza faccia ripartire quello stesso mercato speculativo che è stato causa del nostro male.
Il secondo costituito da un’Italia che sa rischiare quando e quanto è necessario, che sa accettare il proprio territorio “come trovato” ed inventare un nuovo dopoguerra sulle macerie di una Urbanistica che ha inseguito il sogno determinista delle città disegnate a priori. Questo cumulo contiene la storia presente di ogni città, grande e piccola che sia, ed ognuna di esse ha un tema urbano del quale ricostruire il senso e il valore.
E’ evidente che io credo alla qualità del secondo. Non perché ami particolarmente la carne d’asino, o perché al contrario sia per la tutela del ragliante, ma perché il nostro Paese ha nella facoltà di ibridare i saperi un giacimento illimitato. E’ questo il vero asso della storia che può condurre il giardino d’Italia a divenire un infinito paesaggio di occasioni tutte da ridecifrare, rileggere, ridefinire, rimisurare. Ma non solo alla maniera demodè che attua Renzo Piano proponendo “piccolo consigli per il rammendo” delle periferie, essendo lui abituato in realtà ad operazioni di cura antibiotica sulle aree che gli sono assegnate. Più che di semplice rammendo direi che l’Italia ha bisogno di “alta sartoria urbana” nelle città, svolta in agopuntura e in omeopatia, facendo leva su tutti i fattori che messi a sistema, caso per caso, possono generare un’improvvisa massa critica di soluzioni: conoscenza profonda, cultura, pezzi di comunità identitaria, liberalizzazione delle destinazioni d’uso, governance di scopo anche temporali, finanziamenti comunitari e, ovviamente, una politica all’altezza del ruolo; che invece oggi è poco lucida e fatica ad accettare i territori incerti in cui si muovono le piattaforme progettuali più avanzate, siano esse un festival culturale, una pratica urbana o un programma complesso di riuso.
Dobbiamo quindi essere massimamente felici e massimamente in allarme per questa stagione, essere consci che evocare l’articolo 9 della Costituzione Italiana (“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura, …., tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”) senza dare attuazione alla Convenzione Europea del Paesaggio (che supera la definizione di paesaggio come solo “bel paesaggio” e pone al centro della scena le comunità abitanti come soggetti consapevoli della trasformazione) può riempire il Paese di comitati a tutela di qualcosa (o di qualcuno …), ma non di buone pratiche, né di ottimi progetti, né di un linguaggio che oggi ci restituisca il primato di essere una destinazione privilegiata.
Serve un Cesare Pavese ribelle a un Giulio Einaudi, capace di ricordargli (lettera del 14 aprile 1942) che “…c’è una vita da vivere, ci sono delle biciclette da inforcare, marciapiedi da passeggiare e tramonti da godere” e che l’Italia ha depositate in ogni luogo storie sociali, industriali, turistiche e perfino inventate. Penso infatti al paese di Pinocchio, Collodi, dove il parco storico che conserva opere di Michelucci, Porcinai e Zanuso scompare dentro un qualunque tessuto di periferia, ed invece potrebbe divenire il centro di un sistema policentrico a gittata mondiale. Ma penso anche ai comprensori sciistici sulle Dolomiti, che tardano a rinnovare la propria offerta perché è più facile vendere skypass oggi piuttosto che fare investimenti dedicati al turista 2.0. Oppure ai tantissimi capannoni e “casannoni” (così definii alcuni anni fa il modello tipologico che ha fuso la casa con l’officina in un singolare modulo flessibile) che oggi vorremmo veder demoliti (già, ma con quali soldi?) senza darci nemmeno il tempo di pensare al loro essere una straordinaria palestra di riuso in cui insediare comunità smart ad alta intesità sociale. O a molte parti della città storica italiana, nelle quali un commercio meno compulsivo e più consapevole può trainare una voglia rinnovata di spazio pubblico.
L’asino di Buridano quindi non è perplesso, ha fame e una gran voglia di esserci.
Tradirei me stesso se iniziassi questa prima riflessione del rapporto tra architettura e natura affermando di parteggiare a priori per la seconda.
Non è così, ho la maglia della prima cucita addosso, non solo perché mi sono formato ad una scuola di ingegneria e contemporaneamente specializzato con la pratica professionale, nemmeno perché storicamente il mondo anglosassone capisce molto la natura diretta mentre il mondo mediterraneo abita un paesaggio molto molto più lavorato. Parteggio per la prima soprattutto perché so di essere profondamente europeo, quindi figlio di una tradizione culturale che ha esercitato da sempre il culto dell’artificio, o meglio del “patto contrapposto e sincero” tra natura e artificio. Del resto, cos’è Venezia se non il migliore dei patti possibili?
So anche di essere un cultore del Teorema Snozzi, premiare sempre lo studente che di fronte alla prova progettuale dell’albero centenario decide di trasformarlo in un coordinato di mobili in legno massiccio, dimostrando così di saper conoscere il valore della scelta e della trasformazione (senza la quale nulla sarebbe). Di certo egli avrà intonato da bambino la canzone “…Per fare il tavolo ci vuole il legno, per fare il legno ci vuole l’albero …” ed essa avrà fatto di lui un potenziale (ri)costruttore.
Certo, tutto ciò non fa di me, e di tutti quelli che la pensano come me, un cinico speculatore. Il problema infatti è un altro.
Viviamo in un Paese che ha scelto di cullarsi con la Storia dei padri, dei nonni, dei bisnonni e di tutte le generazioni precedenti alla sua, fino a pensare che la Natura potesse tornare ad autoregolamentarsi ovunque senza l’aiuto dell’uomo. Questa forma di regressione culturale ha contribuito a farci perdere nella selva giuridica di vincoli circolari (il vincolo A non è attuabile perché vincolato dal vincolo B, che a sua volta è inibito dal vincolo C, e così via), vincoli vestiti (il caso della riadozione con valenza paesaggistica del Piano Territoriale Regionale di Coordinamento in Veneto farà scuola) e addirittura obsoleti ai fini del controllo della qualità di risultato.
La qualità dunque, è questa la vera partita da tornare a giocare.
Per farlo diviene vitale rinnovare il dibattito sul rapporto tra natura e architettura, facendolo uscire dalle sacche della banalità ed appoggiandosi con chiarezza ai principi della Convenzione Europea del Paesaggio, una “legge cometa” la chiama Franco Zagari, purtroppo inascoltata, che ha avuto il merito di porre tutti i paesaggi sullo stesso piano e di spostare l’attenzione sul ruolo che le comunità abitanti decidono di assumere nei loro confronti.
Vedo una condizione di rischio potenziale da chiarire, analoga a quella aimè già oggi operativa di aver reso sinonimi i termini paesaggio-territorio-ambiente; quante lacrime di coccodrillo e cartucce di inchiostro ci saremmo risparmiati se solo avessimo trattato con dignità la distinzione tra di essi!
Importante è quindi capire quale termine intendiamo far reagire con Natura: Architettura? Urbano? Città? Nel primo caso il discorso può limitarsi ad essere puramente formale, nel secondo caso programmatico e nel terzo politico.
A testimonianza di quanto il tema sia ancora attuale ricordo che la Biennale di Architettura di Rotterdam del 2014 porrà il tema “Urban by Nature”, certo confermando il debito che l’Olanda ha nei confronti dei pezzi di natura che da sempre piega a divenire spazio urbano. Che Olmsted dichiarò il suo Central Park una “architettura di paesaggi” (ma al tempo la definizione tendeva a confondersi con l’elemento natura) e che Borges capì, come sempre, tutto e subito: “A 1 kilometro dalla piramide ho sollevato della sabbia. Sto modificando la crosta terrestre”.
La natura cioè ci pone sempre di fronte ad una scelta impercettibile: se sentirsi padroni di un grande fenomeno, o sentirsene parte, o addirittura elementi insignificanti. E’ il rapporto millenario che va in scena, tra uomo e natura, tra architettura e natura, che non credo possa risolversi nell’icona della serra da museo (si vedano i successi recenti di Renzo Piano all’Academy of Sciencìe di San Francisco e al MUSE di Trento), ma piuttosto nel ritrovare il cammino e la ricerca paziente di nuovi equilibri e nuovi valori. Cioè di nuovi paesaggi.
Le “Giornate di San Venanzo 2013”, un concentrato di workshop convegni e dialoghi informali, consentono di misurare con precisione l’andamento del dibattito italiano su questi temi ma anche, sperabilmente, di trascinarvi dentro la piccola comunità che ospita e “sopporta” il nostro pensare per loro. Essa si interroga (più o meno consapevolmente) sul boschetto che completa l’originario disegno insediativo, e così facendo inizia un percorso di valorizzazione dei propri spazi aperti con modalità “open source” e agili. Che possano queste, più di mille norme, dire qualcosa di vero su un paese che conta numeri fuori quota rispetto alla reale capacità di gestione? 2260 abitanti, un lascito monumentale che meriterebbe un lavoro monografico di anni, la più alta densità di demanio pubblico, con 100 casolari dismessi, 8000 ettari di bosco demaniale su una superficie comunale di 180 km quadrati. Bhe io penso e spero di si.
I progetti del workshop hanno fatto capire quanto sia ciclopico lo sforzo narrativo necessario a dare senso anche al solo boschetto oggetto dello studio. Eppure lo sforzo da fare credo sia quello di estendere il livello di percezione a scala territoriale.
Ho passato i miei ultimi anni a costruire piattaforma urbane e culturali che potessero risultare visibili in poco tempo e credo che San Venanzo possa intestarsi una mossa del cavallo in grado di spiazzare gli interlocutori che la relegano a ruolo provinciale. Vi vedo infatti manifestarsi una importante frontiera di ricerca, quell'”omeopatia urbana” sempre evocata da Franco Zagari in questi anni di transizione obbligata a nuovi modelli.
Fare omeopatia urbana significa appunto tessere un sistema di trasformazioni leggere, poco costose, molto partecipate (non solo dai cittadini). Significa accettare il difficile percorso di tornare a condividere la narrazione dei luoghi con tutti gli attori che possono contribuire a valorizzarli nel profondo, e soprattutto aggredire alla base il modello italiano di separazione per competenze (le cosiddette ontologie regionali) che tanto fanno male all’attuarsi della Convenzione Europea del Paesaggio, tutta tesa ad affermare processi di paesaggio in cui tutela gestione e innovazione vanno a braccetto come tre sorelle. Tre sorelle, come le comunità che ho visto in azione a San Venanzo: la comunità formale di amministratori molto presenti, la comunità informale costituitasi per cinque giorni tra relatori tutors e partecipanti al workshop, la comunità abitante.
Fare omeopatia urbana significa quindi voler affermare questo paesaggio delle tre sorelle, del quale mettersi in ascolto nonostante le sirene normative, con il quale mettersi in sintonia per raggiungere una maggior consapevolezza sui temi urbani: investitori, amministratori, progettisti, studiosi e perfino semplici cittadini.
Fare omeopatia urbana significa pensare a piccole architetture, perfino ad architetture non costruite, chè oggi tornano ad essere importanti anche i progetti manifesto e il dibattito si può aprire su paesaggi belli, meno belli, brutti, meno brutti, di serie A e di serie B. Jordi Bellmunt ha presentato proprio a San Venanzo un decalogo di definizioni che sgombra il campo da tutti i facili approcci; ed è per questo motivo che reputo irresponsabile da parte di eminenti intellettuali italiani il continuare ad armare le truppe popolari per promuovere il paesaggio come bel paesaggio e basta, o per normalizzazione le differenze tra ambiente e paesaggio, come già detto.
Il paesaggio non è uno stato, ma un movimento, il più attivo dei movimenti, e oggi, come sempre, si genera con strumenti culturali, economici e politici; altrimenti il Re Sole non avrebbe mai sostenuto la spesa per Versailles, o sua nipote Carlotta D’Orleans quella per la Reggia di Rivalta a Reggio Emilia, o mille altri esempi non si sarebbero manifestati a noi.
Su questa scia vedo rinnovarsi il rapporto tra nuova architettura e nuova natura nel Presente, ma più di tutto vedo aprirsi una grande stagione narrativa su cosa è luogo oggi.
Quale vento soffia nella città contemporanea a Nordest?
In questa fascia di provincia italiana, che solo in Veneto conta 6 milioni di persone, si concentra ormai il meglio e il peggio di ogni grande città. Da un lato: crisi della mobilità, rischio sicurezza, ritardi nei servizi, costi alti della casa, fasce periurbane degradate e senza alcuna storia da raccontare. Dall’altro: centri storici non più minori divenuti appetibili, paesaggi di grande valore, pezzi di natura intatta, pressione sociale contenuta, rete creativa da guinness e visibilità economica sui mercati internazionali. Una condizione complessa, nella quale è difficile capire quale delle due anime stia prevalendo e quali i progetti strategici da attivare. Verrebbe voglia di semplificare tutto e darle un nome, Metropoli, ma ciò rischia di spingere il dibattito verso un ragionamento che sembra retorico ancora prima di dargli forma.
Il primo passo da fare è piuttosto quello di chiedersi quale sia lo stato dell’uomo in un territorio in grado di produrre bisogni frenetici e, contemporaneamente, esaudire ogni desiderio generato, favorire la mobilità restituendo però in cambio una sempre più asfissiante dipendenza da code e ritardi, invogliare a raggiungere i salotti buoni per poi generare l’opposto desiderio di una vita in campagna. Un territorio che in cinquant’anni ha saputo cambiare fonte economica primaria (prima micro-agricola, poi micro-industriale, ora polverizzata), mobilità sociale (prima si andava nella piazza con il campanile, oggi all’outlet più vicino) e densità urbana (prima orientata per poli storici e assi viari primari, oggi spalmata in funzione della presenza di hub economici) e lo ha fatto, cosa non trascurabile, indipendentemente dalla propria massa critica: perché il tempo di attesa in auto è identico a Conegliano Veneto e a Verona, così come lo è sempre più il miraggio di poter acquistare il pane sotto casa.
Questo modello di vita accelerata ha portato il Nordest a mutare in fretta le proprie regole centenarie fino a farlo diventare un organismo sociale dissociato, un perfetto autodromo urbanizzato e illuminato, un paesaggio a rischio dissolvenza (Pasolini se ne accorse non vedendo più le lucciole), sede privilegiata di merci che si spostano senza distinzione di genere, animate e inanimate che siano.
Si prefigura il rischio di una nuova Babilonia? Di una metropoli inconsapevole tesa a promuovere un “progresso scorsoio” (A. Zanzotto) fatto di vite accessoriate ad alto prezzo (macchina sempre accesa e in coda, case full-optional a tre vani) ma a basso indice di benessere? Se così fosse ci ritroveremmo di fronte al più grande fallimento urbano della storia italiana e, per uscirne, potremmo solo ricorrere ad atti di dissidenza capaci di generare nuove visioni che permettano anche all’Outlet vestito di merli in cartongesso di abbandonare un linguaggio pseudo-rassicurante e ipocrita. Perché non esiste un sovraccarico di luoghi commerciali, industriali, residenziali, ma piuttosto una scarsa capacità di immaginarli attivi nello spazio contemporaneo e al reale servizio dei bisogni dell’uomo.
Quindi, più che trasportati dal vento che soffia, dobbiamo essere guardiani del faro che vigila sul Nordest.
Ambiente Paesaggio Territorio, sono tre termini legati tra loro da vincolo circolare, costretti a rincorrersi senza mai trovare la giusta definizione reciproca e, oggi, usati abusati rapinati in nome di una loro tutela che non trova risultato non certo solo a Nordest. In modo semplice potremmo dire che il territorio si fa con le regole amministrative e le infrastrutture, l’ambiente con la chimica degli elementi cosmogonici e artificiali, il paesaggio con la cultura dell’uomo; che i tre producono effetti diversi ma restituiscono, se indovinati, la capacità dell’uomo di rappresentare la storia del proprio tempo. Per dirla con un brillante scioglilingua di Rosario Assunto “il Paesaggio è la forma che l’Ambiente conferisce al Territorio” (Il paesaggio e l’estetica, Giannini, Napoli, 1973).
Eppure oggi è diffuso il mestiere del “nascondista”; egli va mettendo in ombra quello del paesaggista così come un tempo fece il geometra con il progettista, perché conosce le norme ma soprattutto il modo per renderle aderenti ad un pronto risultato. Il nascondista è maestro nella mitigazione dell’impatto ambientale, non certo nella valorizzazione dell’impatto ambientale. Risultato? Alcuno, se non che il nostro Paese, un tempo considerato “giardino d’Europa”, si attorciglia in un meccanismo che premia i progetti senz’anima scartando i progetti civetta, quelli cioè che potrebbero dar vita ad una nuova stagione infrastrutturale di qualità.
Chi oggi avrebbe il coraggio di proporre una nuova Rocca Pisana nel medesimo punto in cui la mise lo Scamozzi alla fine del ‘500, lì sul crinale, lungo la linea di “massimo impatto”, a fare da faro al contado della Val Padana, ultimo baluardo alzato prima degli Appennini? Una cosa è certa: il miglior discepolo di Palladio ci ha lasciati il miglior dispositivo di paesaggio della Storia Moderna, incernierato a terra più di ogni pietra miliare, capace di segnare le ore più di ogni meridiana e ancor più de La Rotonda sua sorella maggiore, che al confronto resta una cartolina di benvenuto per visitatori vicentini.
E ancora, archiviata l’opportunità “Passante di Mestre”, interrato per la sua maggior parte dello sviluppo (c’era da garantire la mitigazione dell’impatto ambientale…) siamo alle soglie di altre grandi occasioni che hanno il sapore dell’ultimo giro. Il passaggio del Corridoio 5, le realizzazioni della Pedemontana Veneta e del Sistema Metropolitano di Superficie, tutte infrastrutture che andranno ad incidere e micro-incidere molti ambiti del territorio veneto; addirittura la superstrada Pedemontana, attestandosi nella fascia collinare di mezzo, fungerà da ultima grande circonvallazione esterna nel sistema metropolitano (!?!), luogo del metalmezzadro e di quelle variazioni di Paesaggio che hanno arginato un possibile fenomeno sprawl e garantito future partite turistiche (queste si a basso impatto…).
E poi il fenomeno più visibile, quello dei capannoni. Dice Franco Zagari:
“È finita l’era del capannone? No. Lo abbiamo, ora dobbiamo evolverlo. Dove sarà utile lo demoliremo, in qualche caso lo sostituiremo con un suo parente più consono ai tempi. Nella maggioranza dei casi, almeno in principio, si tratterà di adeguarlo a principi energetici attivi e passivi, e di renderlo più decoroso, con progressivi trapianti di pezzi o anche solo con interventi di lifting”.
Su questa linea di lavoro si è misurato recentemente un workshop di progettazione “Capannone senza padrone”, promosso ad Aprile 2011 da Fondazione Francesco Fabbri, Festival delle Città Impresa e Centro Studi Usine. Esso ha condiviso con gli stakeholders dell’alto trevigiano undici casi studio “da mal di pancia” e coinvolto nella loro soluzione nove gruppi universitari e di ricerca provenienti da tutta Italia (Università di Alghero, Università di Ferrara, Università “Mediterranea” Reggio Calabria, Università di Catania, Università di Trento, Università di Trieste, Università IUAV Venezia, LO-FI Architecture, Cibic Workshop).
Il titolo “Capannone senza padrone” ha cercato di fugare ogni dubbio su quale sia l’attuale condizione.Il passaggio all’economia dei saperi si è sommato alle crisi incrociate degli ultimi anni e ciò ha messo fuori gioco moltissimi volumi industriali; la recente crisi del manifatturiero ha reso ancor più palese che a Nordest non è risolta la delicata convivenza tra le comunità locali e i luoghi della produzione; il modello di produzione è cambiato e con lui il modello di stoccaggio dei prodotti; sono presenti casi di capannone rurale in area collinare, capannone periurbano cinto da edilizia consolidata, capannone che impedisce il completamento dei tessuti sociali, capannone inadeguato a raccogliere le sfide in materia di risparmio e razionalizzazione energetica, e così via. Questi capannoni senza padrone, dismessi in età troppo giovane per essere accettati da una cultura che li rifiuta e li denuncia, rappresentano un caso tipologico tra i più flessibili che possiamo ricordare: il passaggio al telaio strutturale li ha resi praticamente indifferenti ad ogni destinazione d’uso, quindi in grado di assorbirle tutte. Ne deriva che da essi possono scaturire le migliori riflessioni su un’area, quella della Pedemontana veneta, in cui il Paesaggio è andato modificandosi a colpi di “un capannone per campanile”.
Ma bisogna accettare di ragionare sull'”as found” (come trovato), già titolo di uno dei più avanzati convegni internazionali svoltosi a Copenaghen nel 2010. Solo con questa presa d’atto è possibile mettere fine al senso del lutto che ancora si respira a Nordest, terra in cui si reclama a gran voce la demolizione dei capannoni ignorando che essi rappresentano ancora un credito finanziario presso gli istituti bancari che ne hanno garantito l’edificazione. Di male in peggio se, oltre a definirla diffusa e confusa, questa città la lasciamo “illusa” nell’idea di sfruttare il proprio passato per rilanciare sul futuro. Al contrario oggi più che mai serve il coraggio dei grandi per andare oltre il messaggio della città storica (composta da semplice tessuto e monumenti), verso la città contemporanea (composta, ad esempio, da verde e capannoni, le cui relazioni sono tutte da indagare); oltre il mantenimento delle discipline come contenitori di saperi predeterminati; oltre l’idea di Paesaggio come “bel paesaggio”. Oggi vince il Paesaggio come anti-disciplina.
Come non cogliere dunque l’occasione della candidatura del Nordest a Capitale Europea della Cultura 2019 per recuperare il terreno di una conoscenza perduta sul Paesaggio, che ci fa pensare ad esso come ad un miraggio naturale piuttosto che ad un intelligente limite di contrapposizione con la natura creato dall’uomo? Per far questo la Comunità va riproposta al centro della scena, ma forse ancora di più lo deve essere la vera identità di una Comunità, che non va confusa con il folklore; vanno attivati veri processi partecipativi capaci di trasmettere una cultura di progetto e di Paesaggio che oggi appare latente in Italia. Se infatti la Pedemontana veneta aprisse nel 2019 diverrebbe il primo e nuovo vettore su cui far viaggiare le idee in modo LO-FI (“low definition”, a bassa definizione quindi); un’autostrada delle idee nel punto di connessione tra pianura e montagna, un corridoio privilegiato che lambisce nel suo percorso terminale i territori del Prosecco, candidati a divenire patrimonio dell’Unesco.
Il protagonista di questo scenario è sempre lo stesso, il Contesto, rebus irrisolto per tutti i decisori. Ma è il contesto che comanda o siamo noi che facciamo il contesto? Su questo sempre si dibatte, da ultimo nell’ambito della Biennale Architettura 2010 “People meets in Architecture”, cercando di trovare il giusto limite in cui collocare il progetto di Paesaggio, la cui fortuna è sempre più figlia di piccoli atti di sensibilità culturale e economica (altrimenti Yunus non avrebbe vinto il Nobel …).
Questo continuo dare importanza alla dimensione dell’intervento piuttosto che al suo valore ci ha tolto l’allenamento alla visione. Eppure oggi viviamo in città che non hanno mura, in un mondo “che non ha più un esterno”, ed è possibile immaginare le grandi trasformazioni come il “risultato di micro interventi” (A. Branzi); rinunciando ai processi di mimesi delle opere necessarie, liberando la conoscenza mettendola al servizio delle piccole opere in un’ottica di grande disegno, indagando le potenzialità di modelli urbani meno rigidi, nei quali gli ambiti estremi della produzione diretta e del loisir siano più vicini. Ecco una prima prospettiva futura per i capannoni a Nordest: sfruttarne l’implicita flessibilità e la collocazione in fasce destinate ad essere saturate, renderli il fulcro dei nuovi stili di vita, oggi non più differenti tra piccola e media città.
Per far ciò è urgente dare gambe alla nuova idea di Paesaggio, capace di trasferire alle nostre comunità il linguaggio della Convenzione Europea in materia. Per quest’ultima argini e tunnel, strade e nuova TAV, nuove ciclopedonali su vecchi tracciati, barriere architettoniche e piccoli ponti, vettori e produttori di energie rinnovabili, sono tutte infrastrutture strategiche per una candidatura forte del Nordest a Capitale Europea della Cultura.
La candidatura, ormai ufficialmente siglata, consente di rilanciare con forza un percorso di riflessione sul Paesaggio contemporaneo in Italia e a Nordest, territorio avanzato che ha dimostrato di sapersi immaginare unito a questa scadenza e che ora deve tradurre in fatti i buoni auspici; e come se non attraverso le opere di mobilità pubblica (commerciale, infrastrutturale, turistica) e gli interventi di paesaggio in vista di una vetrina culturale europea?
Ecco alcuni temi su cui rimanere vigili (già evidenziati in sede di Festival delle Città Impresa):
Tutte le categorie attive sul Territorio sono oggi responsabili delle sue modifiche: Camera di Commercio, Unindustria, Confartigianato e CNA, Confcommercio, Unione Agricoltori, Fondazioni, Ordini e soggetti culturali. Ognuna di esse produce una parte di Paesaggio, normandolo, progettandolo, tutelandolo, vendendolo, ma anche raccontandolo, rappresentandolo e/o solo immaginandolo.
La partita dunque non si giocherà solo tra chi avrà le idee giuste ma soprattutto tra chi avrà la forza di portarle avanti.
INTRO (SE NON PUOI USCIRE DAL TUNNEL … ARREDALO)
Oggi vorrei parlarvi di città, o meglio del futuro che esse possono avere se superano questa stagione ambigua in cui molta parte della politica che ci guida ha perso sicurezza, denaro e forza ideale; in cui molta parte della stampa che leggiamo cerca notizie decotte piuttosto che indagare il nuovo che avanza; in cui i pessimisti urlano più forte degli ottimisti.
Lo vorrei fare perchè nonostante tutti questi gufi è in corso una vera e propria “primavera urbana” in Italia, che fa pulizia di tanti modelli astratti e obsoleti in pochissimo tempo e nella quale il soggetto pubblico e il soggetto privato devono necessariamente tornare a negoziare i progetti dalla stessa parte del tavolo. Per questo condivido le parole con le quali Alejandro Aravena (il più giovane Premio Nobel dell’Architettura) ha chiuso il proprio Ted Talk nel 2014; Aravena ha detto: “il potere della progettazione è cercare di fare un uso più efficiente delle risorse scarse nelle città. E questo non è un fatto di soldi, ma di coordinamento”.
Io nella vita mi occupo di paesaggio urbano, che non significa disegnare nuovi filari di alberi ma piuttosto ricostruire un immaginario coordinato che ci consenta di tornare a “fare città facendo comunità”.
Il mio primo immaginario risale al 6 maggio 1976, esattamente oggi 40 anni fa. Avevo due anni e mezzo ma ricordo ancora tutte le luci di una notte trascorsa per strada, in auto, per scampare alle scosse di un terremoto che in Friuli avrebbe fatto 1000 morti. Quella notte intere città crollavano su intere comunità per volere della Natura e forse da lì mi porto dentro il pensiero che lega questi due elementi.
Molte volte città e comunità si sono date le spalle e sono perfino avanzate in direzione opposta. La crisi però ha avuto il merito di farle ri-avvicinare e di pulire meglio di qualunque spazzino svizzero il terreno comune dalle incomprensioni. Un ulteriore aiuto è giunto dalla “Convenzione Europea del Paesaggio”, quasi una “legge cometa”, perché con la sola frase “è un paesaggio qualunque pezzo di territorio trasformato con consapevolezza” ha mandato in soffitta il nostro “modo italiano” di vedere le cose. Cosa che comunque aveva già fatto Marcel Proust dicendo “il vero viaggio di scoperta non consiste nel vedere nuove terre, ma nell’avere nuovi occhi”.
Ecco che su queste nuove basi si può rifondare un rapporto completamente perso nel secolo scorso pensando che città e comunità dovessero rispondere a logiche diverse: la prima a quelle degli interessi economici, la seconda a quelle degli interessi sociali. Ed ecco che il titolo dato a questa edizione 2016 di TEDxVicenza, “PLAY-PAUSE-RESTART”, riassume perfettamente i termini di un percorso che per noi oggi diventa ineludibile, per quanto pieno di paradossi e nuovi luoghi che ancora non hanno un nome. Insomma non abbiamo più alibi, le discipline classiche con le quali abbiamo studiato vanno in frantumi e si ibridano tra loro. Per usare una metafora diciamo che ci siamo infilati in un bel tunnel, che non è dato sapere quando riusciremo ad uscirne e che l’unico modo per sopravvivervi, nel frattempo, è arredarlo.
PLAY (LA CITTA’ NON PUO’ PERMETTERSI DI ESSERE HIPSTER)
A tutti voi sarà capitato (spero anche ai nativi digitali in sala) di schiacciare PLAY su un mangianastri analogico senza riuscire a farlo; non solo perché il tasto era rotto, ma perché il registratore era ormai superato, e perfino il negozio per ripararlo sotto casa era sparito da tempo, sostituito da una rivendita cinese di cover per smartphones.
Bene, immaginate che all’Italia delle città sia successa un po’ la stessa cosa e che oggi ci troviamo ad abitarle un po’ da “vintage urbani” e un po’ da “hipster nostalgici” perché quel tasto PLAY che serviva ad azionare facili leve politiche ed economiche, a raccontare e a normare facili trasformazioni dei luoghi, non funziona più.
Quello che è accaduto è che è venuta giù la Babele speculativa nella quale un impresario edile diventava per magia un imprenditore immobiliare e interi quartieri avanzavano sotto i nostri occhi disinteressati “con il piede gonfio”. Lo stesso piede di quel mirabile Ministro che non solo ci ha lasciato in eredità una legge sui “capannoni ovunque”, ma anche la frase “con la cultura non si mangia”. Ricordo quindi con un certo orgoglio il giorno di Ferragosto in cui mi tolsi il sassolino dalla scarpa ed ebbi l’occasione personale di ricordare proprio a quell'”omonimo signor T” che, a differenza sua, io stavo dalla parte del grande geografo Franco Farinelli, che dice “la cultura è l’ultimo grande manipolatore di senso che ci resta”.
(E’ TEMPO DI MOSSE DEL CAVALLO, STORYTELLING E OTTIMISMO CORSARO)
La frase di Farinelli dunque è la vera responsabile morale di due azzardi che feci con una bella dose di inconsapevolezza nel 2007 e che segnarono per sempre il mio percorso. L’uno infinitamente piccolo, una parola; l’altro infinitamente grande e complesso, un festival.
Il primo azzardo mi diede la forza di rendere pubblico un neologismo nato per gioco ma che pensavo potesse descrivere meglio di molti discorsi la lunga e grigia epopea del Nord Est produttivo: il “casannone”, casa + capannone. Il casannone rappresentava per me l’omaggio ad un libro di dieci anni prima che avevo amato molto, “Gli amici dei mostri” degli scrittori Gianni Gaggero e Rinaldo Luccardini, e che mi aveva insegnato a rinunciare con ironia ai sacri testi letterari nei quali tutti i paesaggisti si rifugiavano: ad esempio “Le città invisibili” o le “Lezioni Americane” di Italo Calvino, oppure le “Sei passeggiate nei boschi narrativi” di Umberto Eco. Nel libro va in scena un carteggio basato su cartoline postali vere che i due si mandano e che ritraggono ad esempio la “chiesa con porte da calcio”, la “campacasa” o altre stramberie tipologiche. Avevo imparato con quel libro la forza allenante dello storytelling urbano!
Il secondo azzardo mi portò a lanciare in meno di quattro mesi il primo festival delle aree dismesse in Italia. Nacque così “Comodamente”, quella che oggi si definirebbe una piattaforma complessa nata dal basso per rompere gli schemi classici del rapporto tra urbano e cultura, tra commercio e turismo, tra istituzione e think tank; attraverso la quale tutte le categorie sociali ripensano i luoghi in cui dialogare, stare abusivamente o semplicemente dormire!. La sua ultima edizione ha definitivamente destrutturato il modello di evento e si è trasformata in una vera e propria parata urbana di un giorno interamente contenuta dentro quello stesso elastico che ognuno di noi almeno una volta nella vita ha tenuto tra le dita.
Entrambi gli azzardi mi hanno fatto capire che l’Italia è in curva, e dietro quella curva esistono già un nuovo immaginario di città e un nuovo alfabeto con il quale comporle. Entrambi mi hanno insegnato a “capire il presente per capire la storia”, e non solo il suo contrario “capire la storia per capire il presente”. Entrambi mi hanno insegnato che soluzione complessa e soluzione semplice oggi non sono più in contraddizione, così come città e comunità, ma anzi possono essere rappresentate insieme. Tutto sta nel percorrere pensieri laterali, nel fare la cosiddetta “mossa del cavallo”, nel mettere zeppe e ibridare i temi.
RESTART (QUATTRO PROGETTI DI SARTORIA URBANA)
Vorrei quindi presentarvi quattro progetti sartoriali per quattro luoghi italiani: Verona, Collodi, Soligo e Vicenza.
A Verona siamo stati chiamati per rinnovare la speranza di un imprenditore e collezionista altoatesino che si era comprato in riva al fiume Adige il più grande presidio di approvvigionamento ferroviario del Nord Italia dismesso da pochi anni. L’imprenditore pensava in grande ma presto si era trovato davanti il solito muro di gomma che chiamiamo “burocrazia” e sul quale siamo rimbalzati tutti almeno una volta. Per risolvere l’ostacolo abbiamo proposto di passare da un semplice progetto ad un programma complesso denominato VERONA RELOAD, che già nel nome evocasse la volontà di accettare quel luogo così come trovato. Un luogo immenso, di capannoni muti e impenetrabili, popolato solo da pezzi di carrozze e locomotive.
Il primo atto che proponemmo fu simbolicamente quello di “tirare giù” il muro che divideva l’area dal quartiere popolare di Porto San Pancrazio e poi di realizzare in soli quattro giorni un grande spazio aperto da mettere a disposizione dei cittadini. Facevamo città facendo comunità. Una piazza senza panchine riuscì a riattivare un immaginario sepolto da tempo, e infatti nei mesi successivi l’imprenditore fu sommerso di richieste per utilizzare nei modi più diversi sia quello spazio aperto tanto strano sia i capannoni così come la comunità li aveva ri-trovati. E non era ancora stato realizzato un solo appartamento.
In Toscana ci siamo occupati di un luogo in cui tutti abbiamo sperato di perderci almeno una volta nella vita. Collodi, il paese di Pinocchio, secondo libro più tradotto al mondo dopo la Bibbia, collocato sotto una valle di cartiere che da sole producono metà del fabbisogno nazionale e sopra una pianura tappezzata di serre da fiori. Voi direte: il paese sarà una favola! E invece no, bugia. Perché anche a Collodi le cosiddette “centralità antibiotiche” che attraggono i turisti restano scollegate dalle cosiddette “centralità omeopatiche” che vive la comunità locale: le discese al fiume abbandonate, la Piazza della Pace che in realtà è un parcheggio, l’angolo del vivaista e molti altri luoghi minori. Per risolvere il problema abbiamo quindi proposto un ATLANTE COLLODI in cui riassumere e rappresentare tutti i luoghi di relazione possibile tra centralità antibiotiche e centralità omeopatiche. Il risultato è l’affresco di un parco policentrico in cui la forma del paese coincide magicamente con la forma del burattino e il “palazzo” di rappresentanza è in realtà il bosco che nasconde la bellissima Piazza dei Mosaici da cui partì tutto 60 anni fa.
Un caso altrettanto analogo ci è capitato sullo sponde di un altro fiume, il Soligo, che scorre a cavallo fra due comuni nel cuore delle terre del Prosecco e del latte più antico d’Italia. Lì infatti opera da più di 130 anni una Latteria Sociale che oggi è proprietaria di 40 capannoni più o meno abbandonati dopo aver concluso il proprio ciclo produttivo. Ma che fare oggi con quella selva di metri cubi? Una norma recente e sbrigativa proponeva di demolirne almeno il 70% a fronte di una premialità sulla quota residua. Già, demolire, ma con quali soldi? Anche in questo caso la nostra proposta fu quella di provare ad immaginare se quello potesse divenire il luogo di una nuova comunità che vive declinando tutte le possibili facce del sociale, profit e no-profit.
E’ nato così il PARCO SOCIALE SOLIGO, un processo che oggi comincia a trasformare i singoli edifici con progetti condivisi tra i vari attori di quel territorio. Da un anno è aperto al pubblico l’archivio storico della Latteria Sociale e sono in fase di progettazione l’apertura di una “cucina sociale” e di un centro diurno di assistenza alle fasce deboli della società.
Infine vorrei chiudere con un luogo dell’aria di questa città, Vicenza. Un luogo che la storia recente ha portato sulla bocca di tutti pur restando sostanzialmente sconosciuto. Un luogo immenso, che tutti già chiamiamo il PARCO DELLA PACE. Ebbene, da co-progettista di quel luogo e anche da vicentino acquisito, vi dico che non vi è dubbio che di lì passino il cardo e il decumano su cui rinnovare l’intero rapporto tra città e comunità. Quel luogo è un nuovo Heimat, una piccola patria, e come tale va trattato.
Grazie a questi progetti ho capito che l’ibridazione dei saperi rappresenta un giacimento illimitato da cui estrarre nuove città e nuovi paesaggi. Ad esse e ad essi possiamo dedicare tutta la vita o un solo giorno. Dipende non tanto da noi singoli, ma da quanto la comunità decide di tornare al centro della scena.
Non è facile dire a che punto siamo della crisi che in meno di cinque anni ha reso inefficaci e perfino dannosi gran parte degli strumenti urbanistici prodotti poco prima del suo inizio.
Me lo chiedo ogni giorno, trovandomi a condividere in molte parti d’Italia situazioni nelle quali il ritardo di conoscenza su ciò che può significare oggi il termine “fare urbano” genera mostri o, nel migliore dei casi, una forte perplessità quasi quanto l’asino di Buridano, che nel celebre paradosso muore di fame perché incapace di decidere quale dei due mucchi di fieno perfettamente uguali mangiare.
Immaginiamo quindi che anche la nostra Italia urbana si ritrovi di fronte a due pasti della stessa grandezza.
Il primo la descrive in lutto, stritolata e avvilita da crisi e norme, con valori immobiliari tendenti a zero e un mercato allo stallo. Verrebbe voglia di mangiarsi tutto, cioè di demolire tutto, azzerare il mare di lottizzazioni e capannoni che le hanno tolto lo scettro di “giardino d’Europa” (ma anche garantito la ricchezza presunta delle casse pubbliche, delle banche e degli investitori privati); oppure verrebbe voglia di fermarsi, in attesa che qualche divina provvidenza faccia ripartire quello stesso mercato speculativo che è stato causa del nostro male.
Il secondo costituito da un’Italia che sa rischiare quando e quanto è necessario, che sa accettare il proprio territorio “come trovato” ed inventare un nuovo dopoguerra sulle macerie di una Urbanistica che ha inseguito il sogno determinista delle città disegnate a priori. Questo cumulo contiene la storia presente di ogni città, grande e piccola che sia, ed ognuna di esse ha un tema urbano del quale ricostruire il senso e il valore.
E’ evidente che io credo alla qualità del secondo. Non perché ami particolarmente la carne d’asino, o perché al contrario sia per la tutela del ragliante, ma perché il nostro Paese ha nella facoltà di ibridare i saperi un giacimento illimitato. E’ questo il vero asso della storia che può condurre il giardino d’Italia a divenire un infinito paesaggio di occasioni tutte da ridecifrare, rileggere, ridefinire, rimisurare. Ma non solo alla maniera demodè che attua Renzo Piano proponendo “piccolo consigli per il rammendo” delle periferie, essendo lui abituato in realtà ad operazioni di cura antibiotica sulle aree che gli sono assegnate. Più che di semplice rammendo direi che l’Italia ha bisogno di “alta sartoria urbana” nelle città, svolta in agopuntura e in omeopatia, facendo leva su tutti i fattori che messi a sistema, caso per caso, possono generare un’improvvisa massa critica di soluzioni: conoscenza profonda, cultura, pezzi di comunità identitaria, liberalizzazione delle destinazioni d’uso, governance di scopo anche temporali, finanziamenti comunitari e, ovviamente, una politica all’altezza del ruolo; che invece oggi è poco lucida e fatica ad accettare i territori incerti in cui si muovono le piattaforme progettuali più avanzate, siano esse un festival culturale, una pratica urbana o un programma complesso di riuso.
Dobbiamo quindi essere massimamente felici e massimamente in allarme per questa stagione, essere consci che evocare l’articolo 9 della Costituzione Italiana (“La Repubblica promuove lo sviluppo della cultura, …., tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione”) senza dare attuazione alla Convenzione Europea del Paesaggio (che supera la definizione di paesaggio come solo “bel paesaggio” e pone al centro della scena le comunità abitanti come soggetti consapevoli della trasformazione) può riempire il Paese di comitati a tutela di qualcosa (o di qualcuno …), ma non di buone pratiche, né di ottimi progetti, né di un linguaggio che oggi ci restituisca il primato di essere una destinazione privilegiata.
Serve un Cesare Pavese ribelle a un Giulio Einaudi, capace di ricordargli (lettera del 14 aprile 1942) che “…c’è una vita da vivere, ci sono delle biciclette da inforcare, marciapiedi da passeggiare e tramonti da godere” e che l’Italia ha depositate in ogni luogo storie sociali, industriali, turistiche e perfino inventate. Penso infatti al paese di Pinocchio, Collodi, dove il parco storico che conserva opere di Michelucci, Porcinai e Zanuso scompare dentro un qualunque tessuto di periferia, ed invece potrebbe divenire il centro di un sistema policentrico a gittata mondiale. Ma penso anche ai comprensori sciistici sulle Dolomiti, che tardano a rinnovare la propria offerta perché è più facile vendere skypass oggi piuttosto che fare investimenti dedicati al turista 2.0. Oppure ai tantissimi capannoni e “casannoni” (così definii alcuni anni fa il modello tipologico che ha fuso la casa con l’officina in un singolare modulo flessibile) che oggi vorremmo veder demoliti (già, ma con quali soldi?) senza darci nemmeno il tempo di pensare al loro essere una straordinaria palestra di riuso in cui insediare comunità smart ad alta intesità sociale. O a molte parti della città storica italiana, nelle quali un commercio meno compulsivo e più consapevole può trainare una voglia rinnovata di spazio pubblico.
L’asino di Buridano quindi non è perplesso, ha fame e una gran voglia di esserci.
Tradirei me stesso se iniziassi questa prima riflessione del rapporto tra architettura e natura affermando di parteggiare a priori per la seconda.
Non è così, ho la maglia della prima cucita addosso, non solo perché mi sono formato ad una scuola di ingegneria e contemporaneamente specializzato con la pratica professionale, nemmeno perché storicamente il mondo anglosassone capisce molto la natura diretta mentre il mondo mediterraneo abita un paesaggio molto molto più lavorato. Parteggio per la prima soprattutto perché so di essere profondamente europeo, quindi figlio di una tradizione culturale che ha esercitato da sempre il culto dell’artificio, o meglio del “patto contrapposto e sincero” tra natura e artificio. Del resto, cos’è Venezia se non il migliore dei patti possibili?
So anche di essere un cultore del Teorema Snozzi, premiare sempre lo studente che di fronte alla prova progettuale dell’albero centenario decide di trasformarlo in un coordinato di mobili in legno massiccio, dimostrando così di saper conoscere il valore della scelta e della trasformazione (senza la quale nulla sarebbe). Di certo egli avrà intonato da bambino la canzone “…Per fare il tavolo ci vuole il legno, per fare il legno ci vuole l’albero …” ed essa avrà fatto di lui un potenziale (ri)costruttore.
Certo, tutto ciò non fa di me, e di tutti quelli che la pensano come me, un cinico speculatore. Il problema infatti è un altro.
Viviamo in un Paese che ha scelto di cullarsi con la Storia dei padri, dei nonni, dei bisnonni e di tutte le generazioni precedenti alla sua, fino a pensare che la Natura potesse tornare ad autoregolamentarsi ovunque senza l’aiuto dell’uomo. Questa forma di regressione culturale ha contribuito a farci perdere nella selva giuridica di vincoli circolari (il vincolo A non è attuabile perché vincolato dal vincolo B, che a sua volta è inibito dal vincolo C, e così via), vincoli vestiti (il caso della riadozione con valenza paesaggistica del Piano Territoriale Regionale di Coordinamento in Veneto farà scuola) e addirittura obsoleti ai fini del controllo della qualità di risultato.
La qualità dunque, è questa la vera partita da tornare a giocare.
Per farlo diviene vitale rinnovare il dibattito sul rapporto tra natura e architettura, facendolo uscire dalle sacche della banalità ed appoggiandosi con chiarezza ai principi della Convenzione Europea del Paesaggio, una “legge cometa” la chiama Franco Zagari, purtroppo inascoltata, che ha avuto il merito di porre tutti i paesaggi sullo stesso piano e di spostare l’attenzione sul ruolo che le comunità abitanti decidono di assumere nei loro confronti.
Vedo una condizione di rischio potenziale da chiarire, analoga a quella aimè già oggi operativa di aver reso sinonimi i termini paesaggio-territorio-ambiente; quante lacrime di coccodrillo e cartucce di inchiostro ci saremmo risparmiati se solo avessimo trattato con dignità la distinzione tra di essi!
Importante è quindi capire quale termine intendiamo far reagire con Natura: Architettura? Urbano? Città? Nel primo caso il discorso può limitarsi ad essere puramente formale, nel secondo caso programmatico e nel terzo politico.
A testimonianza di quanto il tema sia ancora attuale ricordo che la Biennale di Architettura di Rotterdam del 2014 porrà il tema “Urban by Nature”, certo confermando il debito che l’Olanda ha nei confronti dei pezzi di natura che da sempre piega a divenire spazio urbano. Che Olmsted dichiarò il suo Central Park una “architettura di paesaggi” (ma al tempo la definizione tendeva a confondersi con l’elemento natura) e che Borges capì, come sempre, tutto e subito: “A 1 kilometro dalla piramide ho sollevato della sabbia. Sto modificando la crosta terrestre”.
La natura cioè ci pone sempre di fronte ad una scelta impercettibile: se sentirsi padroni di un grande fenomeno, o sentirsene parte, o addirittura elementi insignificanti. E’ il rapporto millenario che va in scena, tra uomo e natura, tra architettura e natura, che non credo possa risolversi nell’icona della serra da museo (si vedano i successi recenti di Renzo Piano all’Academy of Sciencìe di San Francisco e al MUSE di Trento), ma piuttosto nel ritrovare il cammino e la ricerca paziente di nuovi equilibri e nuovi valori. Cioè di nuovi paesaggi.
Le “Giornate di San Venanzo 2013”, un concentrato di workshop convegni e dialoghi informali, consentono di misurare con precisione l’andamento del dibattito italiano su questi temi ma anche, sperabilmente, di trascinarvi dentro la piccola comunità che ospita e “sopporta” il nostro pensare per loro. Essa si interroga (più o meno consapevolmente) sul boschetto che completa l’originario disegno insediativo, e così facendo inizia un percorso di valorizzazione dei propri spazi aperti con modalità “open source” e agili. Che possano queste, più di mille norme, dire qualcosa di vero su un paese che conta numeri fuori quota rispetto alla reale capacità di gestione? 2260 abitanti, un lascito monumentale che meriterebbe un lavoro monografico di anni, la più alta densità di demanio pubblico, con 100 casolari dismessi, 8000 ettari di bosco demaniale su una superficie comunale di 180 km quadrati. Bhe io penso e spero di si.
I progetti del workshop hanno fatto capire quanto sia ciclopico lo sforzo narrativo necessario a dare senso anche al solo boschetto oggetto dello studio. Eppure lo sforzo da fare credo sia quello di estendere il livello di percezione a scala territoriale.
Ho passato i miei ultimi anni a costruire piattaforma urbane e culturali che potessero risultare visibili in poco tempo e credo che San Venanzo possa intestarsi una mossa del cavallo in grado di spiazzare gli interlocutori che la relegano a ruolo provinciale. Vi vedo infatti manifestarsi una importante frontiera di ricerca, quell'”omeopatia urbana” sempre evocata da Franco Zagari in questi anni di transizione obbligata a nuovi modelli.
Fare omeopatia urbana significa appunto tessere un sistema di trasformazioni leggere, poco costose, molto partecipate (non solo dai cittadini). Significa accettare il difficile percorso di tornare a condividere la narrazione dei luoghi con tutti gli attori che possono contribuire a valorizzarli nel profondo, e soprattutto aggredire alla base il modello italiano di separazione per competenze (le cosiddette ontologie regionali) che tanto fanno male all’attuarsi della Convenzione Europea del Paesaggio, tutta tesa ad affermare processi di paesaggio in cui tutela gestione e innovazione vanno a braccetto come tre sorelle. Tre sorelle, come le comunità che ho visto in azione a San Venanzo: la comunità formale di amministratori molto presenti, la comunità informale costituitasi per cinque giorni tra relatori tutors e partecipanti al workshop, la comunità abitante.
Fare omeopatia urbana significa quindi voler affermare questo paesaggio delle tre sorelle, del quale mettersi in ascolto nonostante le sirene normative, con il quale mettersi in sintonia per raggiungere una maggior consapevolezza sui temi urbani: investitori, amministratori, progettisti, studiosi e perfino semplici cittadini.
Fare omeopatia urbana significa pensare a piccole architetture, perfino ad architetture non costruite, chè oggi tornano ad essere importanti anche i progetti manifesto e il dibattito si può aprire su paesaggi belli, meno belli, brutti, meno brutti, di serie A e di serie B. Jordi Bellmunt ha presentato proprio a San Venanzo un decalogo di definizioni che sgombra il campo da tutti i facili approcci; ed è per questo motivo che reputo irresponsabile da parte di eminenti intellettuali italiani il continuare ad armare le truppe popolari per promuovere il paesaggio come bel paesaggio e basta, o per normalizzazione le differenze tra ambiente e paesaggio, come già detto.
Il paesaggio non è uno stato, ma un movimento, il più attivo dei movimenti, e oggi, come sempre, si genera con strumenti culturali, economici e politici; altrimenti il Re Sole non avrebbe mai sostenuto la spesa per Versailles, o sua nipote Carlotta D’Orleans quella per la Reggia di Rivalta a Reggio Emilia, o mille altri esempi non si sarebbero manifestati a noi.
Su questa scia vedo rinnovarsi il rapporto tra nuova architettura e nuova natura nel Presente, ma più di tutto vedo aprirsi una grande stagione narrativa su cosa è luogo oggi.
Quale vento soffia nella città contemporanea a Nordest?
In questa fascia di provincia italiana, che solo in Veneto conta 6 milioni di persone, si concentra ormai il meglio e il peggio di ogni grande città. Da un lato: crisi della mobilità, rischio sicurezza, ritardi nei servizi, costi alti della casa, fasce periurbane degradate e senza alcuna storia da raccontare. Dall’altro: centri storici non più minori divenuti appetibili, paesaggi di grande valore, pezzi di natura intatta, pressione sociale contenuta, rete creativa da guinness e visibilità economica sui mercati internazionali. Una condizione complessa, nella quale è difficile capire quale delle due anime stia prevalendo e quali i progetti strategici da attivare. Verrebbe voglia di semplificare tutto e darle un nome, Metropoli, ma ciò rischia di spingere il dibattito verso un ragionamento che sembra retorico ancora prima di dargli forma.
Il primo passo da fare è piuttosto quello di chiedersi quale sia lo stato dell’uomo in un territorio in grado di produrre bisogni frenetici e, contemporaneamente, esaudire ogni desiderio generato, favorire la mobilità restituendo però in cambio una sempre più asfissiante dipendenza da code e ritardi, invogliare a raggiungere i salotti buoni per poi generare l’opposto desiderio di una vita in campagna. Un territorio che in cinquant’anni ha saputo cambiare fonte economica primaria (prima micro-agricola, poi micro-industriale, ora polverizzata), mobilità sociale (prima si andava nella piazza con il campanile, oggi all’outlet più vicino) e densità urbana (prima orientata per poli storici e assi viari primari, oggi spalmata in funzione della presenza di hub economici) e lo ha fatto, cosa non trascurabile, indipendentemente dalla propria massa critica: perché il tempo di attesa in auto è identico a Conegliano Veneto e a Verona, così come lo è sempre più il miraggio di poter acquistare il pane sotto casa.
Questo modello di vita accelerata ha portato il Nordest a mutare in fretta le proprie regole centenarie fino a farlo diventare un organismo sociale dissociato, un perfetto autodromo urbanizzato e illuminato, un paesaggio a rischio dissolvenza (Pasolini se ne accorse non vedendo più le lucciole), sede privilegiata di merci che si spostano senza distinzione di genere, animate e inanimate che siano.
Si prefigura il rischio di una nuova Babilonia? Di una metropoli inconsapevole tesa a promuovere un “progresso scorsoio” (A. Zanzotto) fatto di vite accessoriate ad alto prezzo (macchina sempre accesa e in coda, case full-optional a tre vani) ma a basso indice di benessere? Se così fosse ci ritroveremmo di fronte al più grande fallimento urbano della storia italiana e, per uscirne, potremmo solo ricorrere ad atti di dissidenza capaci di generare nuove visioni che permettano anche all’Outlet vestito di merli in cartongesso di abbandonare un linguaggio pseudo-rassicurante e ipocrita. Perché non esiste un sovraccarico di luoghi commerciali, industriali, residenziali, ma piuttosto una scarsa capacità di immaginarli attivi nello spazio contemporaneo e al reale servizio dei bisogni dell’uomo.
Quindi, più che trasportati dal vento che soffia, dobbiamo essere guardiani del faro che vigila sul Nordest.
Ambiente Paesaggio Territorio, sono tre termini legati tra loro da vincolo circolare, costretti a rincorrersi senza mai trovare la giusta definizione reciproca e, oggi, usati abusati rapinati in nome di una loro tutela che non trova risultato non certo solo a Nordest. In modo semplice potremmo dire che il territorio si fa con le regole amministrative e le infrastrutture, l’ambiente con la chimica degli elementi cosmogonici e artificiali, il paesaggio con la cultura dell’uomo; che i tre producono effetti diversi ma restituiscono, se indovinati, la capacità dell’uomo di rappresentare la storia del proprio tempo. Per dirla con un brillante scioglilingua di Rosario Assunto “il Paesaggio è la forma che l’Ambiente conferisce al Territorio” (Il paesaggio e l’estetica, Giannini, Napoli, 1973).
Eppure oggi è diffuso il mestiere del “nascondista”; egli va mettendo in ombra quello del paesaggista così come un tempo fece il geometra con il progettista, perché conosce le norme ma soprattutto il modo per renderle aderenti ad un pronto risultato. Il nascondista è maestro nella mitigazione dell’impatto ambientale, non certo nella valorizzazione dell’impatto ambientale. Risultato? Alcuno, se non che il nostro Paese, un tempo considerato “giardino d’Europa”, si attorciglia in un meccanismo che premia i progetti senz’anima scartando i progetti civetta, quelli cioè che potrebbero dar vita ad una nuova stagione infrastrutturale di qualità.
Chi oggi avrebbe il coraggio di proporre una nuova Rocca Pisana nel medesimo punto in cui la mise lo Scamozzi alla fine del ‘500, lì sul crinale, lungo la linea di “massimo impatto”, a fare da faro al contado della Val Padana, ultimo baluardo alzato prima degli Appennini? Una cosa è certa: il miglior discepolo di Palladio ci ha lasciati il miglior dispositivo di paesaggio della Storia Moderna, incernierato a terra più di ogni pietra miliare, capace di segnare le ore più di ogni meridiana e ancor più de La Rotonda sua sorella maggiore, che al confronto resta una cartolina di benvenuto per visitatori vicentini.
E ancora, archiviata l’opportunità “Passante di Mestre”, interrato per la sua maggior parte dello sviluppo (c’era da garantire la mitigazione dell’impatto ambientale…) siamo alle soglie di altre grandi occasioni che hanno il sapore dell’ultimo giro. Il passaggio del Corridoio 5, le realizzazioni della Pedemontana Veneta e del Sistema Metropolitano di Superficie, tutte infrastrutture che andranno ad incidere e micro-incidere molti ambiti del territorio veneto; addirittura la superstrada Pedemontana, attestandosi nella fascia collinare di mezzo, fungerà da ultima grande circonvallazione esterna nel sistema metropolitano (!?!), luogo del metalmezzadro e di quelle variazioni di Paesaggio che hanno arginato un possibile fenomeno sprawl e garantito future partite turistiche (queste si a basso impatto…).
E poi il fenomeno più visibile, quello dei capannoni. Dice Franco Zagari:
“È finita l’era del capannone? No. Lo abbiamo, ora dobbiamo evolverlo. Dove sarà utile lo demoliremo, in qualche caso lo sostituiremo con un suo parente più consono ai tempi. Nella maggioranza dei casi, almeno in principio, si tratterà di adeguarlo a principi energetici attivi e passivi, e di renderlo più decoroso, con progressivi trapianti di pezzi o anche solo con interventi di lifting”.
Su questa linea di lavoro si è misurato recentemente un workshop di progettazione “Capannone senza padrone”, promosso ad Aprile 2011 da Fondazione Francesco Fabbri, Festival delle Città Impresa e Centro Studi Usine. Esso ha condiviso con gli stakeholders dell’alto trevigiano undici casi studio “da mal di pancia” e coinvolto nella loro soluzione nove gruppi universitari e di ricerca provenienti da tutta Italia (Università di Alghero, Università di Ferrara, Università “Mediterranea” Reggio Calabria, Università di Catania, Università di Trento, Università di Trieste, Università IUAV Venezia, LO-FI Architecture, Cibic Workshop).
Il titolo “Capannone senza padrone” ha cercato di fugare ogni dubbio su quale sia l’attuale condizione.Il passaggio all’economia dei saperi si è sommato alle crisi incrociate degli ultimi anni e ciò ha messo fuori gioco moltissimi volumi industriali; la recente crisi del manifatturiero ha reso ancor più palese che a Nordest non è risolta la delicata convivenza tra le comunità locali e i luoghi della produzione; il modello di produzione è cambiato e con lui il modello di stoccaggio dei prodotti; sono presenti casi di capannone rurale in area collinare, capannone periurbano cinto da edilizia consolidata, capannone che impedisce il completamento dei tessuti sociali, capannone inadeguato a raccogliere le sfide in materia di risparmio e razionalizzazione energetica, e così via. Questi capannoni senza padrone, dismessi in età troppo giovane per essere accettati da una cultura che li rifiuta e li denuncia, rappresentano un caso tipologico tra i più flessibili che possiamo ricordare: il passaggio al telaio strutturale li ha resi praticamente indifferenti ad ogni destinazione d’uso, quindi in grado di assorbirle tutte. Ne deriva che da essi possono scaturire le migliori riflessioni su un’area, quella della Pedemontana veneta, in cui il Paesaggio è andato modificandosi a colpi di “un capannone per campanile”.
Ma bisogna accettare di ragionare sull'”as found” (come trovato), già titolo di uno dei più avanzati convegni internazionali svoltosi a Copenaghen nel 2010. Solo con questa presa d’atto è possibile mettere fine al senso del lutto che ancora si respira a Nordest, terra in cui si reclama a gran voce la demolizione dei capannoni ignorando che essi rappresentano ancora un credito finanziario presso gli istituti bancari che ne hanno garantito l’edificazione. Di male in peggio se, oltre a definirla diffusa e confusa, questa città la lasciamo “illusa” nell’idea di sfruttare il proprio passato per rilanciare sul futuro. Al contrario oggi più che mai serve il coraggio dei grandi per andare oltre il messaggio della città storica (composta da semplice tessuto e monumenti), verso la città contemporanea (composta, ad esempio, da verde e capannoni, le cui relazioni sono tutte da indagare); oltre il mantenimento delle discipline come contenitori di saperi predeterminati; oltre l’idea di Paesaggio come “bel paesaggio”. Oggi vince il Paesaggio come anti-disciplina.
Come non cogliere dunque l’occasione della candidatura del Nordest a Capitale Europea della Cultura 2019 per recuperare il terreno di una conoscenza perduta sul Paesaggio, che ci fa pensare ad esso come ad un miraggio naturale piuttosto che ad un intelligente limite di contrapposizione con la natura creato dall’uomo? Per far questo la Comunità va riproposta al centro della scena, ma forse ancora di più lo deve essere la vera identità di una Comunità, che non va confusa con il folklore; vanno attivati veri processi partecipativi capaci di trasmettere una cultura di progetto e di Paesaggio che oggi appare latente in Italia. Se infatti la Pedemontana veneta aprisse nel 2019 diverrebbe il primo e nuovo vettore su cui far viaggiare le idee in modo LO-FI (“low definition”, a bassa definizione quindi); un’autostrada delle idee nel punto di connessione tra pianura e montagna, un corridoio privilegiato che lambisce nel suo percorso terminale i territori del Prosecco, candidati a divenire patrimonio dell’Unesco.
Il protagonista di questo scenario è sempre lo stesso, il Contesto, rebus irrisolto per tutti i decisori. Ma è il contesto che comanda o siamo noi che facciamo il contesto? Su questo sempre si dibatte, da ultimo nell’ambito della Biennale Architettura 2010 “People meets in Architecture”, cercando di trovare il giusto limite in cui collocare il progetto di Paesaggio, la cui fortuna è sempre più figlia di piccoli atti di sensibilità culturale e economica (altrimenti Yunus non avrebbe vinto il Nobel …).
Questo continuo dare importanza alla dimensione dell’intervento piuttosto che al suo valore ci ha tolto l’allenamento alla visione. Eppure oggi viviamo in città che non hanno mura, in un mondo “che non ha più un esterno”, ed è possibile immaginare le grandi trasformazioni come il “risultato di micro interventi” (A. Branzi); rinunciando ai processi di mimesi delle opere necessarie, liberando la conoscenza mettendola al servizio delle piccole opere in un’ottica di grande disegno, indagando le potenzialità di modelli urbani meno rigidi, nei quali gli ambiti estremi della produzione diretta e del loisir siano più vicini. Ecco una prima prospettiva futura per i capannoni a Nordest: sfruttarne l’implicita flessibilità e la collocazione in fasce destinate ad essere saturate, renderli il fulcro dei nuovi stili di vita, oggi non più differenti tra piccola e media città.
Per far ciò è urgente dare gambe alla nuova idea di Paesaggio, capace di trasferire alle nostre comunità il linguaggio della Convenzione Europea in materia. Per quest’ultima argini e tunnel, strade e nuova TAV, nuove ciclopedonali su vecchi tracciati, barriere architettoniche e piccoli ponti, vettori e produttori di energie rinnovabili, sono tutte infrastrutture strategiche per una candidatura forte del Nordest a Capitale Europea della Cultura.
La candidatura, ormai ufficialmente siglata, consente di rilanciare con forza un percorso di riflessione sul Paesaggio contemporaneo in Italia e a Nordest, territorio avanzato che ha dimostrato di sapersi immaginare unito a questa scadenza e che ora deve tradurre in fatti i buoni auspici; e come se non attraverso le opere di mobilità pubblica (commerciale, infrastrutturale, turistica) e gli interventi di paesaggio in vista di una vetrina culturale europea?
Ecco alcuni temi su cui rimanere vigili (già evidenziati in sede di Festival delle Città Impresa):
Tutte le categorie attive sul Territorio sono oggi responsabili delle sue modifiche: Camera di Commercio, Unindustria, Confartigianato e CNA, Confcommercio, Unione Agricoltori, Fondazioni, Ordini e soggetti culturali. Ognuna di esse produce una parte di Paesaggio, normandolo, progettandolo, tutelandolo, vendendolo, ma anche raccontandolo, rappresentandolo e/o solo immaginandolo.
La partita dunque non si giocherà solo tra chi avrà le idee giuste ma soprattutto tra chi avrà la forza di portarle avanti.
a cura di Sarah Amari
realizzazione sito di Ivan Valvassori